È USCITA DIREZIONE DEL PERSONALE 201 | IL RITORNO DELLA LEADERSHIP

DIREZIONE DEL PERSONALE 201

LEADERSHIP E CAPITALE SOCIALE

Abbiamo tutti passato anni a studiare la leadership: le caratteristiche del leader, le sue competenze irrinunciabili, i compiti, la formazione, i risultati attesi. Con la remotizzazione del lavoro poi, o lo smart working attuale, si sono aggiunte altre capacità da allenare per influenzare e motivare a distanza il proprio team. Ovvero abbiamo sommato un ingrediente nuovo per variare una ricetta passata di moda. Ma oggi per rispondere alla complessità crescente e alla mancanza di certezze del contesto serve ripensare il modo stesso di alimentarsi, ovvero, fuor di metafora, smettere di concentrare tutti i nostri sforzi sul singolo individuo per cercare di capire cosa serve oggi all’intero sistema per reggere la trasformazione. Michel Marmot nel libro La salute diseguale porta in evidenza e dimostra un assioma insieme banale e dirompente:

benessere di una comunità, ovvero quanto e quando ci ammaliamo e quanto a lungo viviamo, dipende in larga misura, oltre che dalla variabile economica e di istruzione, dal capitale sociale ovvero da quanto siamo capaci di interagire, collaborare, fidarci l’un l’altro e sentire di avere un minimo di controllo sulle nostre vite in relazione.

Questa, secondo me, è un’intuizione importante per tutte le organizzazioni sociali perché evidenzia come la dimensione di una comunità connessa e sana possa rappresentare la soluzione per risolvere problemi divenuti più complessi e globali. Ma se si guarda da vicino, e il Covid lo ha messo a nudo, il tessuto sociale delle nostre organizzazioni non è così solido anzi è in molti casi fragile, e lo dimostrano i fenomeni della great resignation e del diffondersi del burn out. È a partire da questa premessa che forse si può portare una riflessione su una nuova leadership smitizzata ma non semplificata, una leadership a disposizione di tutti che non richiede di essere addestrata ad Harvard ma che invita tutti a partire dalla loro condizione di cittadini delle organizzazioni che compongono la società. Peter Block nel libro Community afferma che

il compito principale di un leader, oltre ad abbracciare la propria umanità, è creare le condizioni per l’impegno civile o istituzionale.

Ovvero leader capaci di spostare la cultura verso l’idea di una “proprietà condivisa” dove le persone sono responsabili della propria esperienza e agiscono per il benessere collettivo, con la consapevolezza che è l’unico modo per produrre anche il proprio benessere.
Un’amica mi ha fatto leggere le riflessioni del filosofo Michael Sandel che nella Tirannia del merito critica la meritocrazia come la causa dello sgretolamento del bene comune e della solidarietà poiché pone il successo dell’individuo come fine ultimo della società senza una dimensione di senso più grande. Certo costruire senso di appartenenza e di comunità con una cultura dominante basata sul potere come dominio, sull’individualismo e sulla competizione non è cosa facile. Vanno cambiati i paradigmi di base. A questo si aggiunge il difficile lavoro che il leader deve fare su se stesso dal momento che parte delle caratteristiche necessarie alla leadership come il desiderio di successo, le ambizioni di carriera e finanche un narcisismo controllato, devono essere reincanalate verso un bene comune e per una solidarietà diventata indispensabile per affrontare la nuova condizione umana globale minacciata da crisi ricorrenti di varia natura.
Ce la faranno i leader a fare questo passaggio? Saranno capaci di affiancare alla produttività dei risultati la generazione di senso, la tutela dei legami, la diffusione del sogno, la lettura e la valorizzazione della bellezza di ciascuno? Riusciremo tutti quanti a dimenticare il giudizio e la difesa per essere specchio degli altri aiutandoli a costruire un’immagine di sé più solida e positiva?
Se può essere d’aiuto ai più scettici anche le neuroscienze, capaci di indagare i comportamenti impliciti dei processi mentali, confermano come l’identità sociale condivisa costituisca la base dell’influenzamento e il caposaldo dei processi di leadership (su questo numero ci sono vari contributi su questa base). Lo stile di gestione cooperativo che incoraggia gli scambi e la fiducia, porta performance di gran lunga superiori e durature della leadership narcisistica e personalistica (che pure garantisce livelli di produttività sul breve periodo) oltre a favorire quella facoltà miracolosa del nostro cervello che è la sintonizzazione tra i soggetti in relazione. Per concludere il problema della leadership non è l’ambizione o la ricerca del potere che possono essere anche funzionali, ma la loro interpretazione a favore delle comunità guidate, il chè implica anche il sapersi tirare indietro quando non si è più in grado di rappresentarle o di tutelarle. Troppo spesso invece, leader, anche capaci, si arroccano in difesa della propria posizione e finiscono per mettere gli interessi della collettività in secondo piano dimenticando il nesso di interdipendenza e reciprocità tra individuo, impresa e società. Di questi leader non abbiamo più bisogno.

 

Dall’editoriale di
Maria Emanuela Salati

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