L’antropologo Yuval Noah Harari, in un recente articolo, si chiede in che modo l’uomo potrà reinventare se stesso nell’epoca del post-lavoro che si sta profilando all’orizzonte. La tesi di Harari, come già Rifkin prima di lui, si basa sulla fine del lavoro (o almeno di un certo tipo) a favore delle macchine. Alla luce dei fenomeni del mercato a cui stiamo assistendo oggi, ci si chiede se non ci siano effettivamente in nuce i prodromi di questo fenomeno.
Provo in breve a riassumere ciò che troverete espanso nelle pagine della nostra rivista dedicata ad approfondire proprio questi fenomeni del mercato del lavoro.
Si assiste ad alcune prime macro-contraddizioni come: il raddoppio delle offerte di lavoro a fronte di una diminuzione delle domande e dei curricula proposti in rete, il triplicarsi dei rifiuti a seguito di un’offerta di lavoro e la trasformazione del mercato da company driven a candidate driven. Le aziende non trovano personale specializzato ma in parallelo aumenta il numero dei NEET senza specializzazione che non hanno lavoro e anche quello delle donne che faticano nella ripresa
post pandemica.
Per esperienza diretta posso testimoniare quanto sia diventato complesso trovare conducenti di autobus, elettrotecnici specializzati o tecnici informatici. Si evidenzia qui un problema di mismatch tra formazione e lavoro che senza dubbio è una delle chiavi di lettura di questo trend (racconteremo all’interno di due casi virtuosi di connessione utile tra azienda e scuola) e, come ci dice l’avv. Rotondi nel suo contributo, riqualificare e recuperare queste persone sarà determinante.
Questo fenomeno ha diverse concause riconducibili in parte alla ripresa del mercato dopo il blocco dovuto alla pandemia combinato alla decrescita demografica italiana che riduce il numero dei giovani e rende disponibili per loro le rendite familiari anche minime consentendo ad una quota parte di questi di poter aspettare. A questa “mancata proattività”, almeno nel periodo contingente, ha poi contribuito il reddito di cittadinanza che ha probabilmente alimentato anche il lavoro nero.
Un secondo fenomeno rilevato negli USA ma anche da noi è quello della Great resignation ovvero coloro che dopo la pandemia non sono tornati al lavoro e hanno scelto altre strade. Negli Stati Uniti si registra un’ondata di dimissioni senza precedenti le cui cause sono ancora tutte da indagare e anche in Italia il quit rate è salito di un punto percentuale solo nell’ultimo trimestre. Potrebbe essere l’effetto della ripresa del mercato, della migrazione da settori in difficoltà ad altri in crescita ma anche il sintomo di un cambio di mentalità. Negli USA, ad esempio, è stata rilevata una buona percentuale di professionisti il cui burn out è nettamente peggiorato durante la pandemia e i settori più colpiti sono quello sanitario e quello tecnologico dove i carichi di lavoro sono aumentati.
È allora forse vero che si può vivere “senza lavorare” come dice Harari facendo scelte diverse?
Un’ipotesi da approfondire è che il concetto di lavoro vada ridefinito e ampliato partendo dal presupposto che la realizzazione della persona umana possa prescindere dal suo ruolo produttivo e abbia leve di motivazione e sviluppo diverse da quelle finora utilizzate. Significa, in altre parole, iniziare a considerare lavoro anche quello che oggi non consideriamo come tale.
Roberto Paura dell’Italian Institute for the future, ad esempio, ci dice che, in prospettiva, la formazione universitaria e post universitaria andrà retribuita e lo dovrà essere anche l’attività di volontariato a favore di categorie svantaggiate, come i rifugiati, i disabili e le persone anziane non autosufficienti. Lo dovrà essere la cura dei propri famigliari. Lo dovrà essere il lavoro intellettuale. Lo dovranno essere le attività studiate per tenere attivi gli anziani che saranno la maggior parte, almeno nel mondo occidentale (pensiamo ad esempio al Giappone dove sono state incentivate molte micro attività territoriali svolgibili dagli anziani per gli anziani). L’operosità dovrà sostituire il tradizionale concetto di “lavoro”.
Una vita operosa e appagante potrà sostituire il lavoro salariato tradizionale ci dice il futurologo Paura.
Oggi, per realizzare tutto ciò, non ci sono risorse e il discorso ha una valenza più teorica che pratica ma si comincia ad intravedere una modalità diversa di interpretare il lavoro a partire dalla richiesta dei giovani di smart working e di flessibilità lavorative. Potrebbe essere l’inizio di quel cambio di paradigma in vista della società post-lavoro che richiederà ancora diversi decenni.
L’idea della società post-lavoro teorizzata da Harari si basa sul fatto che l’automazione sarà in grado di aumentare la ricchezza mondiale a tassi più rapidi di quanto sia mai avvenuto nella storia; i redditi da lavoro si ridurranno e aumenteranno i redditi da capitale e quelli della cosiddetta platform economy ovvero i nuovi lavori che in parte hanno già preso piede durante la pandemia e in parte ancora non conosciamo.
Questo lo scenario un po’ huxleiano disegnato da lui che ci fa riflettere.
Di sicuro siamo di fronte ad un salto culturale ed evolutivo della concezione del lavoro e, forse, i nostri figli dovranno trovare un senso alla loro vita del tutto svincolato dal lavoro. Nel contempo, mentre cerchiamo di interpretare i fenomeni, possiamo solo cercare di affinare in modo quasi personalizzato i programmi di talent attraction e retention dando spazio e dimensione di senso ai nostri giovani. Ancora la direzione non è chiara, il prezzo della perdita di identità, ad oggi ancora ancorata alla professione, potrebbe essere molto alto e non conosciamo gli effetti di lungo periodo sul nostro cervello della digitalizzazione totale delle nostre attività. Ma vale la pena aprire il dibattito e ipotizzare nuove strade per non subire passivamente un cambiamento che potremo guidare e supportare noi delle risorse umane per primi.
Dall’editoriale di
Maria Emanuela Salati
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