L’INVERNO DEMOGRAFICO
Questo numero di Direzione del Personale vuole affrontare in modo concreto e pragmatico, secondo lo stile di questa rivista, il tema delle caratteristiche e della convivenza delle generazioni nelle organizzazioni, cercando di analizzare i diversi aspetti di questa realtà e gli strumenti per affrontarla.
In primo luogo i bisogni delle nostre persone cambiano e si diversificano in relazione ai cambiamenti sociali e all’età, come potrete leggere dai nostri articoli. L’altro giorno, in un tavolo di confronto tra aziende sulle politiche di welfare, una collega mi raccontava che da loro le esigenze di servizi evidenziate in una survey interna erano nell’ordine: alloggi (questo a Milano dove gli affitti sono elevati), viaggi, socialità e i servizi del veterinario (anche questi carissimi)!
Nelle organizzazioni coesistono oggi fino a cinque generazioni diverse, ognuna delle quali non si sente riconosciuta abbastanza nella sua identità distintiva e nei suoi bisogni. Nella Pubblica Amministrazione l’età media dei lavoratori è di 50 anni, gli anziani in Italia sono passati ad essere da un quinto a un terzo della popolazione, l’incedere della crisi demografica ha ridotto drasticamente l’ingresso dei giovani al lavoro, gli oltre 3 milioni di Neet sembrano irrecuperabili. Il nostro inverno demografico, come lo definiscono i sociologi, è siberiano.
I risultati sono: la mancanza di commitment, il turn over esagerato dei giovani (che impedisce loro di consolidare le competenze), il blocco dell’ascensore sociale, i conflitti intestini basati su stereotipi e pregiudizi, l’aumento dell’assenteismo per l’invecchiamento della popolazione, l’incancrenirsi della burocrazia difensiva (nella speranza che possa proteggere un fragile status quo). Le giovani generazioni si sentono ignorate e sottovalutate dalla politica per ragioni quantitative, vedono restringersi le loro opportunità e traditi i loro sogni dal momento che, per la prima volta dal dopo guerra, non miglioreranno la loro posizione sociale rispetto ai loro genitori.
La domanda che mi viene da fare è se questo scollamento tra generazioni non possa essere l’esito di una frammentazione sociale ben più profonda.
Leggevo che oggi lo spazio temporale tra una generazione e l’altra è stimato in cinque anni: ovvero ogni cinque anni c’è una nuova generazione caratterizzata da modalità di essere e di agire diverse da quella precedente. Se questo è vero il rischio di incomunicabilità tra noi potrà essere così importante da dividere gli stessi giovani al loro interno e non solo con i senior. Il mutamento potrebbe essere così rapido da rendere impossibile l’adattamento delle nostre menti che richiede ben più tempo. Il rischio è la perdita di conversazione e dialogo basati su simboli, concetti, valori comuni, i veri presupposti della creazione di una comunità. È una minaccia possibile al fondamento del nostro stare insieme che fa riflettere sull’abuso nelle organizzazioni della parola inclusione. Perché nessuno si sente veramente accolto e valorizzato senza comunanze, linguaggi condivisi, sentimenti comuni. Ogni generazione, in questo scenario non così ipotetico, porterà rancore alle altre per avergli sottratto qualcosa o essere mancante di quello che invece le connota. Il rischio di cattiveria nel senso latino di essere captivi, prigionieri potrà essere reale. Cattiveria e cattività sono strettamente collegate, saremo imprigionati nell’incomunicabilità dei nostri cluster generazionali. Anzi, ripensandoci, è dal ’68 che siamo prigionieri delle logiche generazionali, è ora di andare oltre, di cambiare il paradigma. La domanda da farsi allora è: cosa ci lega insieme? su cosa vogliamo fondare l’inclusione e strutturare la nostra società intesa come societas, insieme di soci?
Una possibile via di pensiero è superare l’egocentrismo psicologico che ci connota, a partire dal singolo fino all’intera organizzazione – ogni azienda è autoreferenziale – e trovare qualcosa di più importante di se stessi. Il passare da una concezione geocentrica ad una eliocentrica, dove la nostra organizzazione non è che un pianeta in una galassia in equilibrio, aiuta a ristabilire il senso delle proporzioni e ad allargare la mente e il cuore. Così come chi riesce ad uscire dalla caverna platonica dell’Io lascia un mondo di ombre fittizie che crede reali, per ampliare lo sguardo e vedere nuovi orizzonti. Solo fuori dalla caverna si riscopre il valore di vivere in relazione con gli altri in funzione di qualcosa di più importante di sé. Ci sono mille cose più importanti di noi: l’ambiente è più importante dei profitti aziendali, la cultura è più importante della prestazione quick and dirty, lo sforzo verso l’equità e la coerenza sono più importanti dei percorsi di carriera, il fare bene dovrebbe essere più importante delle logiche di potere individuale (ma non lo è). Forse rompendo questo cerchio di autoreferenzialità, si potranno trovare soluzioni per valorizzare le identità di ciascuno e promuovere una convivenza generativa e non sottrattiva.
Da questa premessa di base allora potranno essere ripensati, ma con una profondità e un senso completamente diverso, tutti gli strumenti che già si stanno sperimentando e di cui si parla nei diversi contributi che seguono: dal mentoring, al coaching, alla formazione, alla brand reputation, all’incremento delle politiche di sviluppo e benessere segmentate per target. Per curare l’inquietudine organizzativa e l’insoddisfazione personale abbiamo bisogno di un progetto autentico che ci faccia sentire migliori e ci consenta di andare oltre noi stessi, che ci restituisca il senso e il piacere del vivere comune. Solo così quest’inverno demografico si potrà trasformare in una nuova primavera.
Dall’editoriale di
Maria Emanuela Salati
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