Flessibilità, riprogettazione, produttività. Le parole chiave dello smart working di domani

Nell’emergenza sanitaria lo smart working è in primo luogo una misura di prevenzione del contagio. Una modalità di lavoro che si è fatta apprezzare da moltissime aziende che ora vanno verso una nuova organizzazione “ibrida” anche degli spazi, per mescolare lavoro in presenza e lavoro da remoto

L’emergenza sanitaria è stata per lo smart working un importante trampolino di lancio. Prima della pandemia, secondo il Politecnico di Milano, i lavoratori italiani coinvolti in progetti di lavoro agile erano 570.000. Nel marzo dello scorso anno, durante il primo lockdown, questo numero si è più che decuplicato. Ancor oggi il numero delle persone che lavora da remoto supera i 5 milioni.
Lo smart working “emergenziale” costituisce in primo luogo una misura di distanziamento sociale nei luoghi di lavoro, e quindi di prevenzione del contagio, raccomandata dal Protocollo del 24 aprile 2020 sottoscritto da governo e parti sociali. Raccomandazione che dovrebbe essere reiterata dal nuovo testo del Protocollo che sta per essere varato. A tale finalità si ricollega la temporanea possibilità di applicare il lavoro agile unilateralmente, a prescindere dall’accordo delle parti.

Sotto altro punto di vista, i provvedimenti normativi che si sono susseguiti nell’emergenza hanno via via previsto il diritto (temporaneo) allo smart working, compatibilmente con le mansioni svolte, per determinate categorie di dipendenti: lavoratori cd. “fragili”, disabili gravi, genitori di figli con disabilità grave, genitori in caso di quarantena, sospensione della didattica in presenza o infezione da Covid-19 dei figli di età inferiore ai 16 anni. Queste particolari caratteristiche del lavoro agile sono destinate a venir meno al termine della pandemia. Ma non per questo lo smart working tornerà ad essere lo strumento “di nicchia” che era prima dell’emergenza. I suoi vantaggi e le sue potenzialità, forzatamente sperimentati a livello di massa nella pandemia, stanno orientando moltissime aziende verso una nuova organizzazione del lavoro “ibrida”, che mescolerà lavoro in presenza e lavoro da remoto.

Secondo il Politecnico di Milano, nel new normal in Italia all’incirca 5.350.000 persone (poco meno di un terzo dei lavoratori dipendenti) lavoreranno da remoto per 2,7 giorni alla settimana. In alcune realtà si stanno già applicando accordi e regolamenti estremamente flessibili, che lasciano al dipendente la scelta se e quando lavorare in presenza e da remoto. Parallelamente alla riflessione su quali siano le attività che è effettivamente utile svolgere in presenza, e in stretta connessione con essa, si va diffondendo nelle aziende una riprogettazione (e in alcuni casi una riduzione) degli spazi di lavoro.

Solo l’11% delle aziende, secondo una recente ricerca del Politecnico, non modificherà gli spazi e continuerà a lavorare come prima.

Per il successo di queste trasformazioni in corso, non si può però prescindere dalla corretta comprensione della natura di questa modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, a partire da cosa non è lo smart working.
Anzitutto non è lavorare da casa. Lo dice chiaramente la stessa definizione legislativa: una prestazione eseguita in parte all’interno e in parte all’esterno dei locali aziendali, senza una postazione fissa (art. 1 legge 81/2027). Ridurre il lavoro agile al lavoro da casa significa regredire al vecchio telelavoro, con tutto quello che può conseguirne in termini di allestimento della postazione lavorativa, con relativi costi e obblighi per il datore di lavoro.
Ma soprattutto lo smart working non è una misura di work-life balance. La possibilità di conciliare vita e lavoro è certamente un benefico effetto del lavoro agile, ma non può esserne la finalità principale.

La stessa legge pone al primo posto, tra i suoi scopi, l’incremento della competitività aziendale. E ciò è possibile solo se lo smart working viene correttamente inteso (e applicato) come uno strumento organizzativo, che sposta la valutazione del lavoro subordinato dal tempo al risultato della prestazione.

Il che implica, per il management, la possibilità e la capacità di assegnare obiettivi e controllarne (anche a distanza) il raggiungimento, dosando anche, in relazione alle concrete esigenze organizzative e produttive, presenza e lavoro da remoto. Con tutto quello che ne consegue in termini di utilizzo delle tecnologie (con relativi investimenti) e di ripensamento e revisione delle procedure e delle normative interne alle aziende. Solo in questa prospettiva lo smart working potrà sviluppare tutte le sue potenzialità, e non ridursi a lavorare da remoto con le stesse modalità con cui si lavora in presenza. Una prospettiva che può mettere in crisi le tradizionali coordinate del lavoro subordinato (tempo e luogo di lavoro), e che spiega alcune resistenze e soprattutto alcune ricorrenti e talora insistenti tentazioni di “ingabbiare” lo smart working introducendo, per via legislativa o contrattual-collettiva, limitazioni o paletti di vario genere.

È al contrario auspicabile, per il successo dell’istituto, che sia mantenuto l’impianto normativo attuale, fondato sulla flessibilità dello strumento e sulla possibilità di utilizzarlo con l’accordo individuale delle parti, che ne disegni l’applicazione in relazione alla concreta situazione aziendale e alle caratteristiche della specifica prestazione richiesta al lavoratore. Accordo individuale che non è quindi una semplice formalità o peggio ancora un semplice formulario da compilare. Meglio cominciare a pensarci prima della fine dell’emergenza.

Avvocato Aldo Bottini
Partner di Toffoletto De Luca Tamajo

La conversazione continua al 50° Congresso Nazionale AIDP, dal 21 aprile al 21 maggio: #Ripartire nuove organizzazioni per nuove persone, live in modalità digitale da Torino.

In particolare questi temi saranno trattati durante il workshop Lo smart working oltre l’emergenza nei due appuntamenti di lunedì 26 aprile e venerdì 7 maggio, sempre dalle ore 17:00 alle 19:00, con l’Avv. Aldo Bottini, Paola Magliano e la partecipazione di alcuni HR manager

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