DIREZIONE DEL PERSONALE 209 | LA SCUOLA È FINITA?

RISCOPRIRE IL “GROOMING DIDATTICO”

Qualche tempo fa uscì uno studio dell’università di Harvard, a cura di Vanessa Rodriguez, sul cervello degli insegnanti che evidenziava per la scuola non solo un ruolo educativo ma anche di tutela della salute. È noto, infatti, come tenere in esercizio il cervello ritardi i sintomi dell’invecchiamento, ma è forse meno noto quell’effetto denominato “grooming didattico” secondo cui, quando un insegnante si prende cura della classe e riesce a instaurare una relazione empatica di “sintonizzazione” dei cervelli, si attiva la serotonina (il cosiddetto ormone della felicità), si riduce il cortisolo, diminuisce lo stress. Ovvero lo stesso effetto del grooming (lo “spulciamento”) tra i primati, che produce una sensazione di benessere non solo in chi lo subisce ma anche in chi lo fa.

Quando si parla di educazione, quindi, si parla innanzitutto di relazione, di un rapporto di vicinanza quasi simile a un transfert in cui l’oggetto è il sapere stesso e il viatico è sempre il desiderio, il tra- sporto verso il sapere connaturato all’uomo. Dice lo psicanalista Massimo Recalcati

Un maestro è degno di questo nome se sa rendere operativa la mancanza dell’ Altro; una lezione è tale solo se sa tenere sveglio il desiderio, se sa generare transfert, innamoramento primario sul sapere

Con questa accezione la parola Educare, che deriva dal latino e-ducere, tirare fuori, significherebbe proprio la capacità di saper tirar fuori dall’altro il talento, il vero sé, di saper mettere in comunicazione la persona con se stessa attraverso il sapere. Il termine Educare, quindi, è quello più esauriente poiché racchiude implicitamente tutte le altre azioni complementari: addestramento, istruzione, formazione che tendono più a fornire le informazioni, a “rendere destro”, a illustrare i processi che semplificano necessariamente il mondo, ma senza fare i conti con la realtà più autentica del soggetto che impara e non sa ancora che deve intraprendere, in primis, un viaggio dentro se stesso attraverso la cultura. Gli insegnanti che tutti noi ricordiamo sono quelli che ci hanno trasferito la passione per la loro materia, che ci hanno “riconosciuto” nella nostra unicità e sono stati capaci di creare quel collegamento sottile tra le nostre caratteristiche e il sapere; in altre parole, che ci hanno “autorizza- to” a essere quello che siamo. Il segno distintivo che lascia un insegnante (insegnare, lasciare un segno) è proprio l’amore per te che impari e per la conoscenza che nutre la tua crescita. Educare è un profondo atto generativo in questo senso, forse il più bello dopo il dare la vita.

Ma Educare richiede tempo, riflessione, pazienza e soprattutto una generosità orientata all’altro, non narcisista; tutti elementi in estinzione nel mondo di oggi orientato alla prestazione, alla realizzazione dei programmi, al rispetto dei calendari, al superamento dei test, nelle scuole come nelle organizzazioni. Il narcisista invece nell’altro si vuole solo specchiare, si vuole sentire adulare, non vuole vederlo crescere e distinguersi. È questo un problema endemico nelle organizzazioni (e forse anche nelle scuole, ma non ne ho abbastanza conoscenza) dove mancano maestri ed è, invece, pieno di manager autoreferenziati. Senza maestri i giovani vengono lasciati nelle loro incertezze, disorientati, con tante domande inevase sul senso di quello che si fa (si parla di purpose perché cosi l’inglese ci aiuta ad allontanare il problema rendendolo non una questione di coscienza, ma di management). Ma allora come possiamo triangolare e aiutare, noi come imprese, un sistema educativo messo di fronte tutti i giorni ai suoi limiti e a una complessità crescente?

Questo numero è dedicato a descrivere quanto già stanno facendo le scuole, le università e alcune imprese virtuose per ridisegnare un nuovo modello più articolato, fatto di luoghi plurimi di incontro e conversazione che possano ispirarci. Il Manifesto per la Scuola di AIDP ne ricostruisce il frame di pensiero, la cornice nella quale si possono esperire progetti e aprire laboratori sperimentali che redistribuiscono equamente la responsabilità dell’educazione su più attori, perché questo è quello che è necessario oggi per far fronte, come prima necessità, alla mancanza di forza lavoro. Contemporaneamente potrà contribuire ad avere lavoratori non solo competenti ma anche consapevoli, stabili, educati al proprio talento e quindi capaci di trovare i luoghi in cui coltivarlo.

Il primo passo in questa direzione, a mio parere, per noi delle organizzazioni, sarà trovare il tempo di questa partecipazione attiva. Il tempo è una dimensione centrale del lavoro educativo, che sia quello scolastico o quello del learning on the job o quello per sviluppare un progetto innovativo con la nostra scuola di quartiere o ad accogliere i ragazzi dell’alternanza scuola-lavoro o fare mentorship ai nuovi assunti. Gli apprendimenti persistenti e significativi hanno bisogno di continuità e ripetizione perché di questo necessita il nostro cervello per trasformare un’esperienza in un circuito stabile legato a un comportamento. E non può essere quindi solo un tempo digitale delegato alla tecnologia. È un tempo in presenza che non sottrae la fisicità, ma la riscopre come veicolo primo di apprendimento e di quella sintonizzazione che genera la qualità e la profondità dell’esperienza. In ultima analisi, un tempo in cui riscoprire il piacere e la gioia della cura, del “grooming didattico”, in uno spazio ritrovato che tramite l’educazione ci restituisce anche la vocazione al lavoro, come dimostrano le interviste che troverete in questo numero.

 

Dall’editoriale di
Maria Emanuela Salati

 

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