Intorno al tema dell’uguaglianza di genere ruota ancora molta confusione e una parziale inconsapevolezza sugli strumenti davvero efficaci, a livello di sistema.
Resta quindi all’iniziativa delle singole organizzazioni cogliere le opportunita’ e soprattutto non perdere l’occasione – unica – che questo momento storico offre per fare un enorme step forward
Scrivere di uguaglianza di genere senza scadere nella retorica è, in questo momento storico, difficile. La diffusione dell’argomento in contesti diversi ha peraltro contribuito ad ingenerare non poca confusione intorno ad alcuni concetti.
Iniziamo sgombrando il campo da alcune imprecisioni lessicali: si definisce genere la costruzione sociale creata intorno al dato biologico del sesso. Parlando di uguaglianza di genere, quindi, ci riferiamo alla rimozione delle differenze (privilegi di un genere a discapito dell’altro o maggiori difficoltà a carico di un genere rispetto all’altro) e, dunque, al raggiungimento di uno stato di assenza di gerarchie sociali tra generi.
L’uguaglianza di genere fa parte degli obiettivi dell’Agenda ONU 2030 e, oggi, di un Piano Strategico anche Nazionale (’21-’25).
Non è, tuttavia, ancora un obbligo all’interno delle organizzazioni, tra le quali le imprese. Se infatti nel nostro ordinamento vige un divieto generale di discriminazione nei luoghi di lavoro, la cui nozione è oggi peraltro allargata a seguito della L. 162/2021, non esiste al contrario un dovere di pari trattamento de* dipendent*.
Ciò nonostante, occuparsi dell’uguaglianza di genere è diventato ormai irrinunciabile per qualunque impresa, per diverse ragioni.
Una è senz’altro la reputation: per il World Economic Forum il 25% del valore di un’impresa è rappresentato dalla sua reputazione sul mercato.
Un’altra può essere individuata nella competitività, da intendersi come capacità di resistere sul mercato: l’attractiveness e la retention dei talenti passano, ineluttabilmente, attraverso la condivisione di valori da parte di candidat* dipendent* rispetto all’organizzazione aziendale. Si tratta di quello che, in maniera un po’ abusata, viene definito purpose.
Il nostro Paese purtroppo, sul punto, ha un gap da colmare ancora significativamente più ampio della media europea riguardo tutti i KPIs, tranne uno: l’equilibrio tra generi nei board delle società quotate.
Questo impone una riflessione sull’efficacia delle imposizioni normative: il risultato ottenuto in Italia circa la presenza di donne nei cda di dette società, evidente risultato della Legge Golfo-Mosca (risultato che non si è esteso – ad esempio – alla nomina di donne al ruolo di CEO, ipotesi non contemplata dalla legge), è purtroppo un unicum nel panorama del nostro ordinamento.
In questo senso un’occasione da non mancare può essere l’introduzione della Certificazione di Genere che attesta le politiche virtuose adottate dalle aziende per ridurre il divario uomo-donna occupazionale e di carriera e grazie alla quale possono godere di un esonero contributivo e di un punteggio premiale nell’aggiudicazione di appalti e di aiuti di Stato. Ad essa le imprese possono prepararsi facendo anzitutto un check sullo “stato di salute” delle proprie organizzazioni relativamente all’equilibrio di genere, e poi strutturando policies, regolamenti e processi interni necessari ad ottenere il c.d. bollino rosa.
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Verso Nuovi Paradigmi
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