La Narrazione della Sicurezza
Il problema della sicurezza sul lavoro in Italia è drammatico.
Nel 2023 gli incidenti mortali sono stati 1.200, in diminuzione rispetto agli anni precedenti ma in numero molto superiore ai 123 del Regno Unito (che ha una popolazione simile) e con un tasso nettamente più alto della media UE. Dopo trent’anni dalla prima legge sulla sicurezza sul lavoro, la famosa L. 626, i numeri degli infortuni sono calati ma non in modo proporzionale all’aumento delle norme e dei controlli. La formazione viene fatta ma non riesce a coinvolgere abbastanza le persone. La frammentazione del processo produttivo e la catena degli appalti che fraziona le responsabilità e spinge solo sulla logica del costo del lavoro, costituiscono una delle radici centrali del problema, spesso taciuta. Il nostro quadro normativo è rigoroso ma non risolutivo e talvolta controproducente.
Provo ad argomentare il perché, partendo da una premessa. Durante il Covid per la prima volta si è parlato del termine Safetyism nel libro The coddling of the american mind di Greg Lukianoff e Jonathan Haidt. Si tratta di un atteggiamento verso la sicurezza fisica, psicologica ed emozionale diventato talmente ideologico ed estremo da esporci paradossalmente a una maggiore fragilità. Il concetto, ripreso anche dal nostro Davide Scotti nel suo ultimo libro Safeness, si basa sul fatto che l’eccesso di protezione in nome della sicurezza porta a cercare di eliminare ogni possibile rischio con il risultato di non prepararci a gestire le emergenze.
Credo che questa teoria possa in parte riguardarci, non perché si sia sviluppata un’eccessiva protezione nelle organizzazioni (come dimostrano purtroppo le continue morti sul lavoro) ma perché rischiamo di trattare il tema della sicurezza irrigidendo l’apparato burocratico di obblighi senza intercettare le motivazioni profonde di certi comportamenti.
In altre parole, per noi il Safetyism potrebbe configurarsi come un eccesso di norme finalizzate più a salvare la forma e a declinare le responsabilità piuttosto che a sensibilizzare al vero problema che è la scarsa cultura della sicurezza, dalla prevenzione alla gestione delle emergenze.
La reazione paradossale a questa istituzionalizzazione della sicurezza, a questo lento snaturamento del tema che smarrisce il suo significato, è la caduta dei soggetti in una condizione di passività, cosa che avviene ogni qualvolta l’imposizione della legge prevale sul desiderio e sulla progettualità.
Il nostro tentativo qui, dunque, è quello di riportare l’attenzione sulle motivazioni profonde, le paure sottese, le culture nascoste nelle imprese, le omissioni che minano la sicurezza nelle nostre organizzazioni, sia quella fisica che quella psicologica. L’obiettivo delle organizzazioni, in altre parole, non dovrebbe essere quello di eliminare il rischio, cosa che sarebbe comunque impossibile e che si basa su una rappresentazione teorica e ideale dei processi di lavoro, ma quello di interiorizzare, a partire dalla sicurezza nei nostri contesti più vicini (in primis la casa), la prevenzione come un valore e un driver imprescindibile nelle decisioni quotidiane.
Come farlo? Lo scrittore Antonio Pascale parla, non a caso, di negligenza pianificata (o disattenzione sistemica), che può essere collegata al modo in cui le persone e le organizzazioni tendono a sottovalutare i rischi o a ignorarli fino a quando non accade una tragedia. Questo tema emerge nel racconto di Pascale per analizzare i comportamenti e le dinamiche che hanno portato all’incidente della Thyssen, riflettendo su come errori umani, decisioni economiche e contesti psicologici si intreccino in eventi tragici. Pascale sostiene che per fronteggiare questa situazione è necessario trasformare il trauma personale in dolore collettivo, con una narrazione del post-trauma che non sia quella di circostanza dei media che consumano la notizia e la gettano nell’oblio. Una narrazione che racconti il non-detto, immagini l’inimmaginabile, generi consapevolezza e senso di responsabilità condivisa. Se un imprenditore, per aumentare la produttività, ha tolto i dispositivi di sicurezza ad un macchinario, mettendo a repentaglio la vita di chi vi opera, rischia di commettere omicidio colposo. Bisogna dunque in primis avere il coraggio di chiamare le cose con il proprio nome e ristabilire un rapporto tra i fatti e il modo in cui vengono raccontati.
Infine, per la mia esperienza, la differenza nel sensibilizzare alla sicurezza la fa la percezione del senso della cura. Non c’è un’organizzazione in salute e sicura senza la presenza di una profonda cultura della cura delle relazioni che rivela la distanza che intercorre “tra il numero e il nome proprio”.
L’anonimato, infatti, porta incuria, sopprime la differenza, genera frustrazione e disattenzione e quindi pericolo. La valorizzazione e l’attenzione al singolo, invece, come espressione della collettività, ovvero immerso nella sua cultura organizzativa, è missione onerosa e complessa, ma l’unica capace di garantire responsabilità e sicurezza e quindi la durata nel tempo dell’impresa (che poi è il fine ultimo di ogni organizzazione).
In conclusione, per combattere il possibile rischio del Safetyism e garantire la giusta sicurezza a tutti i lavoratori, bisogna pensare a costruire una cultura della sicurezza che parta dal proteggere la vita, il progetto, la cura e il desiderio nelle istituzioni affinché queste non divengano pura forma mortifera per i suoi componenti.
Dall’editoriale di
Maria Emanuela Salati
In copertina:
Federica Perazzoli
Folla, 1998
Olio su tela, 150×150 cm.
Milano, Collezione Telema.
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