LA VOGLIA DI LAVORARE E LA TESI DI HEISENBERG
Milano sta diventando una città a rischio di povertà. Aumenta la disuguaglianza proprio in quella che è sempre stata la capitale economica d’Italia e diverse fasce di popolazione (giovani, famiglie monoparentali, anziani, immigrati ma anche famiglie con due stipendi), non riescono più a mantenere gli standard di vita del passato e diventano ostaggi del lavoro, sotto ricatto dal lavoro.
Il modello che abbiamo costruito, orientato all’efficienza e al valore economico, da questo punto di vista ha fallito.
Il lavoro è diventato un ricatto, mentre una volta era una forma di riscatto.
Qualche dato: i giovani italiani sono quelli con il salario più basso d’Europa. Per la prima volta rischiano di essere più poveri dei loro genitori per via della stagnazione che ha sostituito la crescita economica. L’età media dell’acquisto della prima casa avviene intorno ai 45 anni, un over 65 su 10 è indebitato, per comprare una casa oggi servono circa 157 stipendi (mentre negli anni ’80 ne occorrevano 60). La fascia dei Neet in Italia (23,1%) è quattro volte superiore a quella dell’Olanda.
Ma non è tutto qui: abbiamo sempre meno giovani per effetto della denatalità e investiamo sempre meno su di loro cosicché la crisi non è rimasta solo quantitativa ma è diventata anche qualitativa. Le competenze con cui escono dai percorsi scolastici non sono allineate con le richieste del mondo del lavoro. Al Festival della cultura del Lavoro Nobilita 2023 è stato presentato un osservatorio che partiva da questa domanda: “Abbiamo ancora voglia di lavorare?”. Dal sondaggio emergeva che due persone su tre vorrebbero cambiare lavoro e che negli ultimi anni i cambi di lavoro sono aumentati in modo esponenziale. La causa primaria riportata è stata la scarsa realizzazione personale. Ma ciò che colpisce è che alla domanda su cosa è motivante per la propria professione il fattore economico occupa il secondo posto mentre al primo posto viene messo “lo scopo”: capire quale sia la direzione e il motivo per cui si persegue un obiettivo.
I giovani, infatti, denunciano di non sentirsi riconosciuti, di dover accettare lavori dove non ci sono percorsi di crescita, di non poter esprimere se stessi: in definitiva di doversi adattare al ribasso rispetto alle loro aspettative giustificate o velleitarie che siano. Si ritrovano fragili, impreparati, esposti e diventano passivi e distaccati a fronte di tante esperienze lavorative frammentate e mal pagate di cui non riescono da soli a ricostruire il senso. Forse potremmo aiutarli noi in questo, sapendo valorizzare con la nostra esperienza tutte le sperimentazioni passate, anche quelle che ci sembrano inutili o non dignitose. Mi viene in mente la ridondanza buona che Nassim Taleb nel suo libro Robustezza e fragilità definisce come un equipaggiamento estremamente utile verso la casualità che ci governa. Qualsiasi cosa, infatti, in natura abbia un uso secondario, o una capacità in più apparentemente non utilizzata, sarà avvantaggiata qualora dovesse emergere una realtà fino a questo momento ignota e un nuovo incontro dovesse fare la sua comparsa. Chi disporrà del massimo numero di usi secondari è quello che guadagnerà di più dalla casualità ambientale. Taleb fa l’esempio dell’aspirina nata come antipiretico, poi divenuta un analgesico, oggi usata come anticoagulante. Ecco forse trasferendo l’input ai nostri giovani della necessità della ridondanza per affrontare la complessità potremmo aiutare chi incontriamo nei nostri colloqui a valorizzare i molti modi con cui hanno esplorato le loro molteplici vite e a ricostruire quel senso di cui sentono la mancanza. Questo potrebbe essere un primo passo per supportare la motivazione dei giovani che dovrebbe essere una delle nostre principali preoccupazioni oggi.
Una seconda riflessione potrebbe derivarci da alcune tesi di fisica quantistica riproposte da Carlo Rovelli nel suo libro Sette brevi lezioni di fisica. Rovelli riporta l’idea rivoluzionaria del fisico tedesco Heisenberg secondo cui gli elettroni non esistono sempre.
Esistono solo quando qualcuno li guarda, o meglio, quando interagiscono con qualcosa d’altro. Si materializzano in un luogo quando sbattono contro qualcosa d’altro. Nella meccanica quantistica nessun oggetto ha una posizione definita se non quando incoccia contro qualcos’altro. Ma non solo: i salti con cui gli elettroni passano da un’interazione all’altra avvengono largamente a caso. Ecco che la probabilità compare nel mondo della fisica laddove sembrava che tutto fosse regolato da leggi precise e inequivocabili.
Le equazioni della meccanica quantistica da allora sono risultate utilissime nei campi più svariati eppure restano misteriose e, dal mio punto di vista, implicano il fatto che dobbiamo accettare l’idea che la realtà sia dominata dal caso e dall’interazione. Questo collegamento tra fisica quantistica e tematiche HR non è accidentale e leggendo il numero scoprirete il perché, vi attende una sorpresa su questo argomento.
Tornando nel mondo del lavoro e al senso del lavoro, che è il tema del giorno di questo nostro numero, ne vorrei trarre questa conclusione del tutto soggettiva ma per me generativa: noi facciamo un certo tipo di lavoro per pura casualità cosi come gli elettroni si aggregano per puro caso ma questa casualità diventa causalità nel momento in cui veniamo osservati, quando avviene un’interazione e il fenomeno viene visto. È l’osservazione che rende possibile il fenomeno. Così come è attraverso il riconoscimento che la capacità diventa competenza. È lì che la casualità acquista senso. Allora per aiutare i nostri giovani e noi stessi a trovare o a riscoprire il senso del lavoro occorre da una parte l’intenzionalità del soggetto che vuole ricostruire la sua storia ex post e ne trova il fil rouge e dall’altra, qualcuno che lo guarda e lo aiuta a farlo, qualcuno che lo aiuti a trasformare, attraverso l’incontro, il caso in destino.
Dall’editoriale di
Maria Emanuela Salati
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