DIREZIONE DEL PERSONALE 205 | AMBIVALENZE DAL CONTRASTO ALL’INCONTRO

POLARITÀ E VALORI NELLE ORGANIZZAZIONI

Nella vita di ogni giorno ci troviamo continuamente nella necessità di affrontare contraddizioni apparentemente insanabili, perseguire obiettivi che sono in contrasto tra loro, implementare politiche incoerenti, giustificare nella complessità la coesistenza degli opposti. Spesso questo compito viene affidato a noi delle risorse umane che dovremmo avere una chiave interpretativa in più non tanto per spiegare i perché ma più nel tenere a bada le lamentele e i mal di pancia dei colleghi facendo da contenitore.

Questo numero di Direzione del Personale è dedicato proprio ai dualismi, alle polarità cercando di suggerire alcune riflessioni che ci potranno aiutare a gestire, forse con più consapevolezza, questa caratteristica ontologica delle organizzazioni contemporanee. In particolare, troverete, dopo gli articoli di inquadramento del tema, l’approfondimento di alcune delle molte polarità con cui quotidianamente ci confrontiamo: la compresenza di più generazioni al lavoro, individualità-collettività, la polarità dei generi, sostenibilità-profitto, tradizione-innovazione, benessere-produttività, locale-globale, presenza-assenza, dipendenza-autonomia con anche racconti di casi concreti di come queste antinomie abbiano trovato il giusto equilibrio.

Partiamo con l’analisi terminologica ricordando come nella parola ambivalenza sia implicito il valore di entrambi gli elementi e che il concetto di polarità porta con sé una condizione di complementarità tra gli opposti, tale per cui ciascuno dei due poli non potrebbe esistere senza l’altro e viceversa.
La polarità in filosofia è, infatti, l’espressione del rapporto di reciproca dipendenza di due elementi contrapposti.

Nella filosofia cinese è noto come proprio la polarità assuma un’importanza centrale. Nel Taoismo, ogni aspetto del mondo è costituito da una coppia di opposti, di cui uno attivo e predominante, l’altro passivo e sottomesso (lo jing e lo jang). I poli costituiscono i due estremi opposti di una medesima realtà, essendo connessi inestricabilmente tra loro in un disegno unico, sono cioè interdipendenti. Non si può comprendere il giorno senza la notte o la povertà senza la ricchezza. Solo partendo dalla loro unità è possibile intuire l’idea della relatività e della diversità, aprendosi alle infinite possibilità che essa mette in atto.

Il filosofo teologo Romano Guardini dice «Tutta l’estensione della vita umana sembra dominata dalla realtà degli opposti. In ogni suo contenuto sembra di poterli indicare. Probabilmente non soltanto nella vita umana; essi stanno, forse, alla base di ogni realtà viva e forse di ogni realtà concreta». Sempre Guardini ci mette in guardia dalla tentazione di delimitare tutto, come a ricordarci che spesso siamo proprio noi a creare questa polarità distintiva che ci serve ad affermare la nostra identità. E questo va bene, a patto che non si perda di vista la complementarietà delle posizioni, la connessione di tutte le cose, la visione d’insieme che restituisce un disegno di senso. Il vero pericolo è la disconnessione non la contrapposizione. Nella connessione invece si mantiene viva la relazione, anche la dipendenza tra i due opposti e questo ci consente di non perderne la ricchezza. In fondo leggere le contraddizioni come polarità di uno stesso asse permette di ampliare enormemente le declinazioni e le possibilità di risposta e di convivenza. La polarità apre soluzioni non le chiude, consente di scoprire e creare una multidimensionalità che altrimenti andrebbe distrutta nella visione binaria.

La riflessione sugli opposti diventa quindi centrale non solo da un punto di vista concettuale ma da un punto di vista esistenziale, storico; quasi uno strumento di lettura della realtà, un punto d’osservazione in cui decidere per una cosa coincide a valutare e includere istantaneamente anche l’altra.
Tutto ciò diviene fonte di un incremento conoscitivo e di molteplici chiavi di lettura e opportunità.

In questa visione più teorica che pratica poi la nostra difficoltà sta nel vivere al confine, nel dover spesso stabilire cosa è dentro e cosa è fuori, nell’adoperarsi perché quei confini si amplino, seguendo la logica dell’et/et e non dell’aut/aut che Varchetta e Iacci ci suggeriscono nei loro contributi.
Ci può aiutare in questo compito pi. difficile, che a volte mette in discussione in primis la nostra coerenza interiore o le nostre credenze, il tracciare un confine netto, questo sé, tra polarità e valori.

I valori intanto vanno per gerarchia e non per contrapposizioni, visivamente si muovono su un asse verticale mentre le polarità stanno su un’asse orizzontale. I due concetti non vanno confusi altrimenti diventa davvero impossibile muoversi nella complessità e il vissuto organizzativo diventa insopportabile. Rispetto alle polarità l’organizzazione deve convivere con esse e trasformarle in un punto di forza, deve allenare le sue persone a leggere le ambivalenze come posizioni possibili, la multidimensionalità come l’avere tante soluzioni a disposizione. Rispetto ai valori, invece, deve emergere dal crogiolo indistinto di principi comportamentali, una gerarchia che permetta quando i valori confliggono, di capire quali di essi deve prevalere. E occorre che questi valori siano ben chiari anche nel sistema premiante e sanzionatorio. L’assenza di una gerarchia di valori porta alla crisi e all’implosione decisionale sia del sistema sia del singolo. Pensiamo a quante persone hanno dichiarato, relativamente al fenomeno della great resignation, di non essere più capaci di reggere il conflitto valoriale che generava in loro l’ambiente e le modalità di lavoro. Forse aiutarci e aiutare a non confondere i valori con le declinazioni operative di ambivalenze intrinseche all’organizzazione che le persone ritroveranno ovunque, può offrire un supporto alla gestione di questi malesseri che crescono e si nutrono di questa confusione. Non mescoliamo i due piani altrimenti si rischia di vivere le polarità come incoerenze insanabili e l’unica via diventa il conflitto o l’uscita.

 

Dall’editoriale di
Maria Emanuela Salati

 

 

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