Great Resignation, strategie di retention e opportunità aziendali.
Il punto di vista di Giovanna D’Alessio,
CEO & Co-Founder di Asterys.
In dialogo con Domenico Giangiulio e Laura Lippi
La Great Resignation, o meglio “dimissioni volontarie”, vista nell’ultimo anno sembra essere ancora in pieno svolgimento, ed il fenomeno, seppur generale, risulta maggiore in alcune aree, come ad esempio negli Stati Uniti o, riferendoci al nostro mercato nazionale, nel Nord Italia, e più impattante per alcuni lavoratori, in particolare per gli “zoomers” o Generazione Z. I lavoratori in molti casi non stanno semplicemente lasciando il proprio lavoro, ma stanno ripensando il proprio bilanciamento vita-lavoro e riconfigurando l’aspetto delle loro carriere, come anche dimostrato dai recenti dati pubblicati da AIDP sul tema.
Per analizzare sul campo questo fenomeno, dal punto di vista di chi opera quotidianamente con Società Italiane e Multinazionali, abbiamo intervistato Giovanna D’Alessio, CEO e Co-Founder di Asterys, Società Italiana che fornisce servizi di trasformazione e sviluppo organizzativo ed individuale in Italia ed all’estero.
Obiettivo principale dell’intervista è quello di analizzare, attraverso l’esperienza empirica, come le Società stanno reagendo al fenomeno della Great Resignation e quali iniziative, ovvero misure strategiche e tattiche stanno implementando per ritenere le persone all’interno della propria azienda, nonché quali impatti al livello organizzativo ha avuto questo fenomeno e quali scenari futuri, nel breve e nel medio-lungo termine, si intravedono.
Potresti descriverci di cosa ti occupi con la tua Società e qual è il vostro ambito industriale e geografico di maggior rilevanza per il vostro business?
Asterys è una società di sviluppo organizzativo e trasformazione, quindi ci occupiamo di sviluppo individuale, sviluppo dei teams e sviluppo della cultura organizzativa. Gran parte del nostro business è in Italia, ma lavoriamo in circa 25 paesi con i nostri collaboratori, perché assicuriamo alle aziende internazionali la presenza di consulenti locali. Specialmente negli ultimi anni, abbiamo iniziato a supportare le organizzazioni anche in programmi globali, quindi, direi, la geografia non è mai stata un nostro limite. Anche i settori con cui ci interfacciamo sono abbastanza variegati, collaboriamo con molte aziende del food & beverage, della moda, farmaceutiche, della finanza, ma anche le grandi società di consulenza e industrie manifatturiere e siderurgiche.
In base alla tua esperienza sul campo con aziende italiane e multinazionali, che idea ti sei fatta della Great Resignation, e che impatti ha avuto?
Come di consueto, quello che succede negli Stati Uniti da noi succede un pochino dopo, e di solito con meno enfasi. Devo dire che negli Stati Uniti la facilità di passare da una azienda all’altra è storica, in Europa passare da un’azienda all’altra non è mai stato proprio così immediato, quindi, c’è un minimo di distinzione da fare. Ad ogni modo, anche a causa del lock-down le dinamiche sono cambiate e le regole che prima guidavano la nostra vita sono state temporaneamente revocate anche grazie al tempo che abbiamo avuto per riflettere maggiormente durante questi giorni tutti uguali trascorsi a casa. C’è un fenomeno interessante che sta anche alla base della relazione che si chiama la “crescita post traumatica” (PTG). Teoria che spiega le trasformazioni in seguito a un trauma. Può essere qualsiasi cosa, un’aggressione, un attacco violento, un incidente. In questo caso è stata la pandemia. Questa teoria suggerisce che le persone che sopportano questa lotta psicologica in seguito ad avversità, in realtà possono poi avere una crescita positiva in seguito. E questo è quanto è successo a molti dopo il lock-down, con ripensamenti sulla propria vita. Ho visto che molte persone ultimamente prima decidono dove vivere e poi riflettono sulle opportunità di lavoro disponibili. Non era quasi mai successo prima e lo trovo interessante, nella mia esperienza è sempre stato il contrario.
Quali impatti stai riscontrando nella realtà pratica?
Credo che si stia assistendo ad un’espressione di maggiore autodeterminazione, dove le persone mettono in primo piano la propria volontà, non necessariamente il lavoro. Si sta ancora osservando il fenomeno per poterne trarre le conclusioni e rispettive azioni di retention, specialmente sulla flessibilità. Il processo non è ancora concluso e siamo sulla finestra a guardare, l’impatto non è cosi forte in Europa, quindi le aziende vogliono capire di più sul fenomeno prima di intraprendere iniziative.
Per quanto riguarda Asterys, siamo un caso un po’ atipico perché il giorno in cui ho creato l’azienda, vent’anni fa, l’ho creata già “liquida”, nel senso che eravamo già tutti in smart working. Non c’è, e non abbiamo mai avuto, l’ufficio di rappresentanza dove dovevamo andare tutti la mattina. Ho avuto l’opportunità di scegliere le persone migliori a prescindere dal luogo dove vivevano, anche se vent’anni fa non era facile trovare persone che fossero adatte a fare il lavoro da remoto, quindi, per noi la flessibilità è sempre stata fondamentale. L’altra anomalia è che noi siamo una delle pochissime aziende in Italia dove non esiste la gerarchia poiché siamo organizzati in team auto-organizzati. Ognuno sa quello che deve fare, prende le proprie decisioni, non deve chiedere il permesso a nessuno. Tutti sono al corrente di tutto quello che succede all’interno dell’organizzazione e dei contributi che ognuno sta dando. Da questo modello deriva una grande “accountability”, che ha permesso di mantenere alta la motivazione e flessibilità, nonché una mission molto forte, importante per le nuove generazioni, quindi di avere un turnover pari a zero.
E cosa stai riscontrando nelle realtà con cui collabori?
Devo dire che in molte aziende con cui ho a che fare ci sono una serie di programmi per la retention, ma non vedo delle iniziative specifiche per uscire da questo fenomeno delle dimissioni. Quindi ho la sensazione che si stia ancora osservando il fenomeno con delle aziende che sono più impegnate sicuramente rispetto ad altre. Non sto vedendo in questo momento la grande risposta. Quindi ho la sensazione che ci sia ancora un momento di osservazione per capire bene come reagire e quando.
Forse l’impatto non è ancora così forte, e non tutte le aziende sono impattate nello stesso modo, giusto?
Ovviamente. Rispetto a quello che io conosco, vedo che le industrie più impattate sono quelle che hanno un modello di business caratterizzato da una dipendenza uomini/tempo. Quindi sono tutte quelle che durante la pandemia, come ad esempio i servizi di ristorazione, le crociere, gli eventi sportivi, i concerti, le compagnie aeree, sono stati impattati con conseguente cascata sui lavoratori, sulla partecipazione, sulla motivazione, sul benessere. Mi sembra che una incidenza ci sia stata anche nei servizi professionali e aziendali che ho seguito, in cui le persone hanno lasciato il lavoro a un tasso maggiore di altri settori. Credo che ci siano vari motivi, nel senso che credo fosse più forte la mancanza di equilibrio tra lavoro e vita privata che un desiderio di maggior appagamento come un posto migliore in cui lavorare in generale.
Per quanto riguarda le categorie dei lavoratori, dunque credo che prevalentemente i frontline workers abbiano subìto più stress nei due anni di pandemia. E anche il segmento dei giovani e quelli che sono a metà della loro carriera. Ho dato un’occhiata ad alcuni sondaggi pre-pandemia, e già molti allora stavano cercando attivamente nuovi lavori perché non si sentivano apprezzati o c’erano poche opportunità di avanzamento. Ci sono stati anni in cui c’è stato spazio per fare delle carriere lampo. Io a 32 anni ero dirigente e adesso in generale è tutto molto, molto lungo. E ciò si traduce in un minore apprezzamento da parte delle persone dopo poche opportunità di avanzamento. E poi se ci si aggiunge anche la mancanza di flessibilità nel tempo e nello spazio, naturalmente questo invita più persone a guardarsi intorno e a cercare altro. Sicuramente con questo sconvolgimento a larghissima scala, sia nell’economia che nella vita di centinaia di milioni di persone, molti si sono ritrovati una rinnovata attenzione per quello che conta di più per loro, in questo periodo di introspezione cha ci ha portato o ha portato molti a ripensare il proprio lavoro, i propri percorsi di carriera e quindi chi non è soddisfatto del proprio ambiente di lavoro per uno scarso equilibrio tra lavoro e vita privata è più facile che in questo momento decida di lasciare. Mentre magari qualche anno fa avrebbe più facilmente tenuto duro.
Da qualche anno, chiaramente prima della pandemia, c’è stata una maggiore attitudine a cambiare spesso aziende (cosa nata come sempre negli USA) per accumulare esperienze e massimizzare guadagni e crescita. Anche se poi chiaramente bisogna valutare la tenure nelle nuove aziende ed il reale valore di questa crescita dovuta ai vari cambi. Come lo vedi questo fenomeno?
Certamente è così e personalmente lo vedo abbastanza positivo perché naturalmente ogni nuova opportunità che hai, ti rimette in gioco. Probabilmente si riesce ad ottenere un aumento di stipendio, ampliare le proprie conoscenze, misurarsi con sfide e stimoli nuovi. C’è però da dire che questo non è sempre visto positivamente dalle aziende in quanto spesso ci troviamo di fronte a managers “baby boomers”, che invece danno valore ancora alla fedeltà e quindi non valutano positivamente i cambi di lavoro. Conosco molti managers che non assumerebbero una persona che ha cambiato varie volte per timore di fare un cattivo investimento perché magari “sta con noi altri due anni e poi se ne va”. Però ci dobbiamo abbastanza abituare a queste dinamiche, perché i più giovani, quelli che si stanno affacciando al mondo del lavoro, hanno un punto di vista e un set di valori completamente diverso da quelli che erano dei boomers. Tendenzialmente i più giovani hanno molto chiaro che tipo di vita vogliono fare. Il lavoro non è l’unico polo della loro vita e quindi non tutto gira intorno al lavoro, pertanto è molto più facile che i nuovi passeranno di azienda in azienda molto più velocemente rispetto alla generazione precedente.
Quindi la domanda è “so what?”. Come stanno reagendo le aziende per contrastare il fenomeno, e quali strategie e strumenti stanno utilizzando, in base alla tua esperienza?
Allora la premessa è quanto ti dicevo prima. Ci sono molte aziende, la maggior parte delle aziende, che ha in piedi tutta una serie di strategie, ma non necessariamente create ad hoc per arginare la Great Resignation. Però, come dire, il side effect che hanno è che comunque motivano le persone a rimanere. Quindi alcuni premiano i dipendenti aumentando i salari, altri danno opportunità di avanzamento, inteso come sviluppo professionale, finanziando corsi, promuovendo l’up-skilling ed il re-skilling, molti supportano il lavoro ibrido quindi la capacità di lavorare in modo flessibile sia da ufficio che da casa, che è ormai diventato fondamentale per la soddisfazione dei dipendenti. Molti sono diventati B-Corporation (o B-Corp), ovvero un tipo di certificazione che richiede che l’azienda si impegni a rispettare determinati standard per garantire un impatto positivo sui proprio dipendenti, sulla società e sull’ambiente, condiliando l’economia e il profitto con l’etica, la sostenibilità e il benessere. Adesso diventare B-Corp significa dare un chiaro messaggio che tu sei lì come azienda, non semplicemente per fare soldi. Vuol dire abbiamo preso un forte commitment su governance, impatto sociale e impatto sull’ambiente. Un’altra cosa che ha fatto un nostro cliente è stata iniziare ad utilizzare modalità organizzative per creare “autorità distribuita”: non ha, come dire, tolto la gerarchia, ma la gerarchia ha un peso molto meno evidente e quindi c’è maggiore autorità distribuita con le persone che possono prendere decisioni in autonomia. Insomma, in generale, ci sono tutta un’altra serie di iniziative per aumentare l’accountability, l’innovazione e la performance. C’è anche chi offre dei percorsi di terapia psicologica per chi affronta dei periodi difficili. Questo lo facciamo anche noi in Asterys. Tanto, tantissimo training su Diversity & Inclusion, supporto alla genitorialità, e via dicendo. Però in generale riguardano quelle aziende che da anni sono impegnate sul benessere psicofisico delle persone e quindi non hanno creato queste iniziative specificatamente per contrastare la Great Resignation, quanto più rappresenta un’evoluzione del proprio modello di benessere verso i dipendenti. Il vero nocciolo del discorso riguarda la necessità di ripensare tutto il journey dei dipendenti, e non solo quando vogliono andarsene.
Quindi l’impressione è che la maggior parte delle aziende diano luogo ad iniziative, piuttosto che sviluppare una precisa strategia con approccio proattivo più che reattivo.
Sono d’accordo. Questo è proprio considerare il dipendente come un vero cliente interno e quindi immaginare il giornale di viaggio di questo employee nei vari steps della sua carriera, delle sue posizioni e non solo. Ma l’impressione è molto simile alla tua, nel senso che non mi sembra di vedere, per esempio, una chiara ownership, delle proprie strategie, una vera e propria mappa, roadmap con degli indicatori. L’unico indicatore probabilmente è il tasso di retention.
Quali opportunità stanno nascendo da questo trend secondo la tua esperienza?
Una grande opportunità per i lavoratori: chi sarà motivato e vorrà maggiori responsabilità, le avrà sempre di più. Ma anche per le aziende: mi aspetto di vedere un’organizzazione del lavoro post pandemia che si allontana dall’approccio tradizionale a prescindere dall’emergenza sanitaria. Cambierà anche l’uso degli uffici, e man mano diventeranno più luoghi di collaborazione, un luogo per riunioni e dove incontrare i clienti. E probabilmente questo modo di organizzare il lavoro cambierà anche lo stile di leadership richiedendo nuove competenze. In particolare, richiede self leadership che secondo me piano piano sostituirà il concetto di leadership tradizionale.
Si dovrà acquisire talenti nel modo giusto e saperli organizzare bene, tra chi sarà in ufficio e chi non. Ci sarà una spinta verso l’auto-organizzazione e auto-responsabilità. Questo per offrire un lavoro stimolante e flessibile, che è ciò che stanno cercando le persone. C’è una azienda multinazionale – Nespresso – che sta implementando l’autorità distribuita. Piu si snellisce la gerarchia e maggiormente le persone sono engaged e motivate, piu empowerment, piu purpose e maggior retention.
Cosa intendi per self leadership?
Capacità di autogestione, una prova di leadership personale, non di leadership legata al ruolo. Per esempio, nella mia azienda nessuno è leader di nessun altro. Però tutti devono essere in qualche modo leader, perché ognuno deve portare avanti le sue idee. Poi si discutono nel team, si approvano e si obiettano. Ma c’è un aspetto proprio di intraprendenza in questo. Chi sarà maggiormente motivato e vorrà assumersi maggiori responsabilità consentirà una maggiore agilità nelle organizzazioni. Bisognerà selezionare i talenti in modo giusto. E anche aiutarli a socializzare nel modo giusto se non sono tutti in ufficio. Dovrà secondo me esserci una sempre più forte spinta a lasciare indietro tutto l’apparato gerarchico che rallenta l’organizzazione. Più che di flessibilità ora si parla di agility che ha una connotazione di maggiore imprenditorialità e affermazione. Certamente il cambiamento non è immediato, affatto. Perché è un cambiamento epocale. Però bisogna vedere chi ha il coraggio di prendere la decisione oggi perché richiede un cambiamento molto impattante e disruptive. In vari progetti di ricerca che abbiamo affrontato è emersa una cosa molto chiara, ovvero che abbiamo delle potenziali soluzione a problemi organizzativi. Il problema è che se provi ad adottare principi diversi ma con la stessa mentalità gerarchica preesistente, i principi non diventano realtà nè efficaci. Tu acquisisci dei tool, ma siccome non cambi mindset non diventano reali. Rimani per così dire “a metà”.
In sintesi, quali nuovi trend ti aspetti nel 2023 oltre a quanto già detto?
Come già detto, io credo davvero che questo sia un fantastico momento perché il cambiamento è stato accelerato terribilmente in questi ultimi due anni e credo che ci siano tantissime opportunità per trasformare davvero il modo in cui lavoriamo e quindi il modo in cui passiamo oltre metà della nostra giornata. Credo che vedremo grosse trasformazioni nelle aziende, magari non a brevissimo termine, perché le aziende hanno bisogno di pensare, di riflettere, di dire, di digerire e anche poi di fare degli esperimenti, dei pilot. Le aziende non cambiano da un momento all’altro, ma come dire la traiettoria è quella. E vedo però maggiori opportunità per le persone che lavorano, perché ho la sensazione che dopo questo assaggio di maggiore libertà e flessibilità sul lavoro che ci ha dato la pandemia, credo che ci saranno tantissime persone che sceglieranno la strada della maggiore autonomia magari diventando freelance per più aziende, per essere più liberi, rinunciando al contratto permanente per offrire servizi a più di un’azienda. Questo è anche un qualcosa che può aiutare le aziende in ottica di assicurarsi determinati servizi in maniera più flessibile, con il concetto del Fractional Management. Probabilmente noi in Italia non ci siamo così così abituati. Però è un qualcosa in cui io vedo valore anche perché, e mi rifaccio anche a quello che dicevamo prima, si sta passando sempre di più ad una logica di lavoro per attività e progetti. Questo approccio può aiutare anche per portarsi dentro delle competenze che non sempre abbiamo, generando opportunità lato persone ed aziende.
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